Qualche post fa scrivevamo dell’incredibile varietà linguistica del subcontinente indiano. A questa magnifica babele di lingue non manca il corrispettivo in termini di biodiversità animale.
Anzi, di biodiversità bovina.
Non tutti lo sanno, ma nel territorio indiano sino ad un secolo fa erano allevate 111 varietà di vacche autoctone. Da nord a sud, dai climi caldi ai climi più freddi, questo animale noto per la sua importanza simbolica e religiosa, si era adattato nei secoli per poter vivere in condizioni e ambienti diversi.
Di bassa statura o dalla stazza imponente, bianche o brune, con le corna o senza, dalle lunghe orecchie o meno, le vacche indiane sono sempre state alla base dell’economia delle famiglie e dei villaggi nelle zone rurali, fornendo latte e forza motrice, sia per lavorare la terra sia per spostare carri e carretti. Per la cronaca non è solo per la fornitura del latte che i bovini sono importanti. Se come si dice dalle nostre parti “del maiale non si butta via niente”, neppure della vacca si spreca alcun prodotto: latte, burro, ghee, sterco e urina sono i cinque principali prodotti usati nella quotidianità rurale indiana.
E di quanto le mucche siano al centro della vita indiana, ne abbiamo già parlato.
Ma se da un censimento del 1947 queste varietà si contavano appunto in numero maggiore al centinaio, nel 2013 il numero si era ridotto ad un terzo.
Solo 37 le varietà rimaste!!!
Perché si è verificato tutto ciò?
Nel corso degli ultimi decenni nelle campagne indiane sono state introdotte razze bovine ibride, in apparenza più produttive, più resistenti e meno bisognose di cure veterinarie. Spinti da previsioni di guadagno maggiori e sostenuti dai governi locali – a loro volta “stimolati” da altri poteri -, gli allevatori indiani hanno dunque rimpiazzato in modo progressivo le vecchie varietà bovine, decretando di fatto la scomparsa di molte di queste.
Addirittura in alcuni stati indiani l’allevamento delle varietà autoctone, ritenuto dispendioso e potenzialmente pericoloso dal punto di vista igienico sanitario, è stato vietato dalla legge.
In questo scenario assurdo, ma purtroppo molto realistico e non isolato al mondo della zootecnia – basti pensare al caso delle sementi Monsanto – un uomo ha avviato all’inizio degli anni ’90 la propria pacifica battaglia in difesa delle antiche razze bovine.
Lui è Chandran Master, insegnante keralese in pensione che nella sua fattoria è riuscito sino ad oggi a salvare dall’oblio 17 varietà bovine indigene. Fra queste figura la Vechur, la vacca più piccola del mondo alta appena 80 centimetri. Le cura con attenzione e rispetto, aiutato dall’amico di lunga data Thomas, e spiega che per questi animali indigeni è importante mangiare erbe e foglie di piante autoctone. Secondo i suoi studi, i bovini autoctoni indiani mangiano nel corso della loro vita non meno di 50 diverse specie vegetali, molte delle quali dalle importanti varietà curative.
Queste sostanze ingerite permettono al latte munto di essere ricco di tali principi, e di essere più sano del latte munto da bovini ibridi nutriti con mangimi e prodotti trattati chimicamente. Secondo le sue stime inoltre non è affatto vero che le razze autoctone siano poche produttive. A fronte di pochi litri di latte prodotti quotidianamente, la vita media di questi animali è molto più lunga, e con essa il periodo di tempo in cui essi producono il latte.
Ci uniamo a Chandran nella sua pacifica ed eroica missione, quella di salvare dall’estinzione e dall’ignoranza questi miti e preziosi animali, nella speranza che qualcun altro raccolga il testimone e si attivi per proteggerli con efficaci provvedimenti.
Credits
Foto razza Vechur: http://www.dhenugovind.org/breeds.html
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