La prima edizione della Biennale di Kochi-Muziris è un evento lungo tre mesi. In questo assomiglia in tutto e per tutto alle Biennali al di qua dell’Oceano indiano. Alla Venezia putrida dei canali o alla quinquennale Kassel così fredda e germanica anche d’estate. Cochin ben si presta ad ospitare la prima Biennale di Arte Contemporanea dell’India; perché è un città che trasuda fascino e nella sua atmosfera da pescatori ha anche tutta un’aria europea. I turisti lo leggono tra le pagine sgualcite delle Lonely Planet: qui ci sono stati i portoghesi e poi gli olandesi. Adesso è un posto con un suo fascino decadente e agrodolce, una regina dei mari che ha un porto contemporaneo e delle strane reti di pescatori che vengono calate in acqua come argani statici e che proiettano tutto indietro nel tempo.
Dal 12-12-12, data ovviamente non casuale, la città del distretto di Ernakulam è entrata di diritto e di prassi nella geografia dell’arte contemporanea. Fa caldo a Cochin in questi giorni. Talvolta cadono i temporali, ma il termometro è sempre sopra i venticinque gradi. Ma questa Biennale non è come ve la immaginereste: decadente, scrostata, ignorata, indiana. Ci trovate, piuttosto, le famiglie, i galleristi – non solo indiani -, viaggiatori da crociera, gli amanti d’arte, gli studenti, i politici e gli attori. E c’è anche un progetto che odora di direzione artistica e che ambienta tutto il film in un ambito molto più professionale e attuale di quanto si potrebbe immaginare. Attraverso la celebrazione dell’arte contemporanea di tutto il mondo la Biennale intende rievocare il passato cosmopolita di Cochin e dell’antico porto di Muziris (30 km a nord), dove salpavano navi romane, cinesi e arabe prima del 1341, anno in cui un alluvione lo cancellò dalle rotte del commercio e diede vita al nuovo porto naturale di Kochi. Gli spazi espositivi sono gallerie d’arte, edifici storici, magazzini in disuso e spazi pubblici. Ci siamo andati questo week end, a tre giorni dall’inaugurazione. Dei 13 luoghi espositivi solo il Durbar Hall è sul continente, nel cuore della città moderna di Ernakulam, ed è stato restaurato dalla Kochi Foundation, la stessa coinvolta nell’organizzazione della Biennale. � diventato uno spazio con un pavimento in graniglia multicolore, molto finto e molto à la page. Con alte pareti bianche e luci ad incandescenza, crude e verdastre; di quelle che si usano nei musei inglesi. Gli altri contenitori sono eterogenei e non hanno paura, un sentimento che per una Biennale si correva il rischio di percepire, di apparire desueti, e passati. A Fort Cochin il centro principale è l’Aspinwall House, un enorme edificio che si affaccia direttamente sulla baia. Una serie di spazi di diverse dimensioni che furono il quartier generale della compagnia inglese che commerciava in spezie. Sempre sul mare è la Pepper House edificata dagli Olandesi con un grosso cortile dove le merci aspettavano di essere imbarcate. L’intersezione culturale propria della Biennale e la grandiosità del progetto si riflettono nella vibrante e continua affluenza di pubblico (dieci mila solo domenica). Sono tanti gli artisti in giro per la città , tra quelli segnati e comparsi sul pannello ufficiale e quelli che in città ci sono venuti, con viaggi improbabili o comodissimi, solo per l’occasione. E così tutti parlano dell’ultima installazione di Gupta o di Santiago Sierra, di Alfredo Jaar, e dell’ormai mitico Ai Weiwei, - per non parlare dell’onnipresente e immarcescibile Jannis Kounellis o del rampantissimo Cyprien Gaillard, rampollo della Fondazione Trussardi proprio in mostra adesso a Milano. Ma questi, in fondo, proprio per la loro storia internazionale, per il loro essere prezzemolo nelle sale del mondo che inaugura come condimento su insalate multietniche e multiculturali, sono anche quelli osservati con maggiore distrazione da chi visita. Certo, sono fotografati, sono riportati nei dispacci dei giornali, e le loro gallerie potranno permettersi rassegne stampa e lussi reportistici di ogni tipo; tuttavia quello che sembra di questa Biennale è la complessa e mai scontata esperienza che l’India contemporanea ha di cimentarsi con una pratica espositiva tutta europea, definitivamente importata e non autoctona. Non hanno importanza le star, chiamate per questioni di brigantaggio notiziario e opportunismo, quanto piuttosto il modo apparentemente acerbo e goffo di collimare la tradizione con questa necessità tutta coeva e ossessiva verso il gesto ed il segno nuovo.Tra i visitatori molti sono gli indiani del posto che, incuriositi dalla campagna pubblicitaria e dalla copertura mediatica, si avventurano a gruppi o in famiglie tra gli spazi e non esitato a interagire laddove l’artista lo abbia concesso. Se dalla domanda nasce l’interesse e la ricerca la Biennale è senza dubbio riuscita nei suoi intenti pedagogici. Ma anche noi europei alla disperata ricerca di fenomeni e di pepite mercantili non dimentichiamolo: l’intenzione politica della Biennale è portare attenzione alla storia del Kerala, della zona geografica peculiare. Un bel monito per un occidentale potrebbe essere l’India non è la Cina, non per forza ci si deve trovare il nuovo fenomeno del mercato. Per un indiano, l’esperienza visuale va oltre la tradizione. E come nella più banale e attecchita memoria di provincia, la verità sta nel mezzo: così, la Biennale di Cochin è un ottimo modo per capire come questo straordinario paese si approccia a nuove tematiche e nuovi medium, conciliando l’imponente e il maestoso peso della sua eredità visuale e storica.
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