Seduta su un autobus per Trivandrum ripenso alla prima volta che ho attraversato il Kerala. Guardo i paesaggi sfilare davanti agli occhi e lascio fluire ricordi e sensazioni.
Rivedo il tappeto dalle mille sfumature di verde intravisto dall’aereo, attraversato da fiumi serpenti argentati al sole. Fuori dall’aeroporto l’aria calda e umida e le palme onnipresenti, tante da dare il nome allo stato: Kerala, secondo un’etimologia incerta, significa la terra del cocco. A un’ora di macchina c’è Cochin, regina del mare arabico, porto di scambi e commerci fin dall’antichità. Il traffico pesante e l’atmosfera caotica non li avevo previsti. Ma in India, e forse ovunque nel mondo, le cose belle devono essere conquistate. Si deve coltivare l’arte della pazienza e imparare a gustare i sapori discordanti miscelati nello stesso piatto, sforzandosi di apprezzare il contributo di ciascun aroma.
Così si scopre il cuore della città, la sua ininterrotta tradizione all’accoglienza e al commercio. Il piano urbanistico di Mattancherry, sulla penisola di Kochi (nome indiano originario), con il palazzo reale a confine tra il quartiere ebraico e la zona coloniale portoghese racconta la storia di un popolo che crede nel rispetto degli altri, nella libertà di culto. La chiesa di San Francesco, in Fort Cochin, ha cambiato tre nomi, parla tre lingue e conosce vizi e virtù dei portoghesi, olandesi e inglesi che hanno abitato nelle case dell’insediamento vicino al forte. Le reti cinesi, una tecnica di pesca basata sull’uso di contrappesi, testimoniano che la perseveranza, la collaborazione e un poco di arguzia possono garantire la sopravvivenza, anche quando il mondo attorno cambia velocemente. I pescatori, organizzati in cooperative, non esitano a farti vivere il passato permettendoti di tirare corde o semplicemente posare per una foto in bilico sulle palafitte, combinando la pesca dei pesci a quella delle mance per le foto. Petroliere ed enormi navi da crociera entrano ed escono dal porto, mentre pescatori tirano le reti e al mercato del pesce prosperano generazioni di gatti randagi, protetti da uomini baffuti.
Gioisco al pensiero del paradiso per il cuore che sono le backwater di Alappuzha (conosciuta anche come Alleppey) una zona sotto il livello del mare dove tutta la terra emersa è collegata da canali e coltivata prevalentemente a riso.
Che meravigliosa sensazione la barca, una bella casa galleggiante di legno e bambù, che scivola silenziosa sull’acqua dei pacifici canali. La carezza del volo non curante di tantissimi uccelli che, anche se non so riconoscere che martinpescatori turchesi e cormorani ad asciugare le ali al sole, sono sicura si stiano godendo il riposo dopo un lungo viaggio. Il tramonto sul lago di Vembanad, su cui si affaccia Alleppey, fa parte della classifica dei miei tramonti memorabili. Il lento e sereno scandire del tempo per la gente che vive in tre metri di terra tra campo di riso e canale cerco di custodirlo sempre vivo nella mente per i momenti d’irrequieta frenesia.
Ricordo lo stupore per gli strati di vegetazione che creano la foresta salendo verso Thekkady sui Ghat Occidentali, gli “Appennini” dell’India. Malinconiche cime di alberi morti sono i guardiani silenziosi del lago artificiale, creato sul confine con il Tamil Nadu dagli inglesi che sommersero una parte della foresta e ne deforestarono un'altra parte per coltivare il té. Camminando sui sentieri del trekking Suresh, la guida che mi accompagna e discende dai tribali che hanno abitato nella foresta fino qualche anno fa, mi ha indicato il nome delle piante in malayalam, inglese e latino. Ho imparato che gli elefanti sono pericolosi e che i bisonti scappano al click leggero di una macchina fotografica. In un giardino di spezie ho odorato la noce moscata (le cui foglie profumano come il frutto) e mi sono stati rivelati i segreti delle spezie, primo tra tutte quelli del pepe, l’oro nero che fece arrivare persino i romani su questi monti.
Poi giù, oltre le colline ricoperte di alberi della gomma, con il liquido bianco gommoso che lacrima lungo i tronchi, la capitale dello stato: Thiruvananthapuram. “Come fa una città ad avere un nome così lungo” è stato il pensiero balenato nella mente leggendo il cartello lungo la strada. Gli inglesi per risolvere la questione la chiamarono Trivandrum, ma il nome originale è pregno di significato: la città del serpente infinito, su cui giace il dio Vishnu prima che si manifestasse il mondo. Per una terra che la leggenda vuole emersa dal mare, la capitale non potrebbe avere nome migliore. La sensazione che ricordo maggiormente è un piacevole disorientamento. Un sali e scendi di piccole strade e spaziosi viali alberati sui sette verdeggianti colli che sono la città. Anche se la parte ufficiale, con gli uffici governativi e la dimora del re (senza corona) mi hanno colpito per l’ordine e la pulizia, con architetture coloniali armoniche, a dare anima a Trivandrum è il centro storico raccolto tra mura di granito con il tempio di Padmanabhasvami che ne è il cuore pulsante. La fervente attività della gente che riempie i vicoli e si riversa nei negozi del vecchio mercato di Chalai, disteso davanti alla grande porta d’ingresso del centro religioso più ricco dell’India, se non del mondo.
Rammento il desiderio di distendermi sulla spiaggia balneare di Kovalam, la più famosa del Kerala. Il piacere di stare su una terrazza, con il campo visivo che si allarga sull’oceano contenuto tra il faro e il molo di scogli a sorseggiare una bibita ghiacciata e chiacchierare con turisti, e non solo, di ogni parte del mondo. Così come è piacevole il ricordo di giornate iniziate con un massaggio ayurvedico e pomeriggi cullati su un’amaca all’ombra, dedicati alla lettura.
L'autobus di paese in paese, è arrivato a destinazione mentre si susseguivano le tappe del mio pensiero. Il viaggio non era finito allora, ero scesa fino alla punta dell'India baciata da tre mari, e ancora oggi la valigia è sempre a portata di mano, per la prossima partenza.
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