A Mamallapuram, in Tamil Nadu, le onde si infrangono sugli scogli, in lontananza si sente il martellare sordo di scalpelli. Davanti al mare un antico tempio sfida le intemperie, le pietre corrose non hanno perso la loro forza evocatrice arcaica. Alle spalle una collina cisellata di templi: alcuni sobri, poco più che grotte e altri decorati con colonne sagomate e bossorilievi. In mezzo un enorme masso di granito da cui si liberano sculture vive, piene di energia. Seguendo lo scalpellio si ritorna verso il mare e dalla sabbia emergono i ratha, templi ricavati per sottrazione, portando via a colpi di ferro e sudore pietra dalla roccia.
Questa è oggi Mamallapuram o Mahabalipuram, un parco archeologico che rimane impresso nella memoria per il grande valore artistico, un’arte viva che prosegue ininterrotta dal VI secolo fino a i giorni nostri. Un tempo la città era il più importante porto dell’impero dei Pallava.
Gli altari non hanno dei, nelle sacre celle dei ratha e di alcune grotte non ci sono statue. Niente dei di pietra, niente culto? Qual’era allora la loro fuzione?
Molti monumenti sono incompiuti. C’è anche una copia della penitenza di Arjuna abbandonata poco distante dal capolavoro, anch’esso non finito. Perchè l’abbandono dei lavori?
Gli splendidi bassorieli della penitenza di Arjuna raccontano una storia enigmatica. La figura di uno scheletrico asceta affiancato dal dio Shiva lascia pensare che si tratti della storia del re guerriero Arjuna narrata nel Mahabharata. Il re, per ottenere l’arma di Shiva e sconfiggere i nemici in battaglia, trascorre lunghi anni nella foresta in ascesi. Ma ci sono indizi che non tornano. La centralità della scena del fiume che cade dalla sommità, accolto dai naga, i semidei serpenti, dagli uomini e dagli animali, fa pensare che in realtà la storia raccontata è la mitica discesa del Gange sulla terra. I re Pallava che vollero Mamallapuram, contendevano il potere con i confinanti Chaulukya, che al tempo avevano già sperimentato la costruzione di grotte e templi in arenaria. E’ possibile che il sito fosse una sfida, per mostrare al mondo la superiorità dei Pallava nell’arte. Il materiale scelto fu il durissimo granito (usato in precedenza solo dal grande imperatore Ashoka, nove secoli prima). Forse i ratha e i rielivi sculturei furono laboratori di sperimentazione a cielo aperto per arrivare alla perfezione dello Shore Temple. Prove di scultura e studi di architettura. Questo spiegherebbe le inusuali posizioni di alcune statue di animali e la mancanza degli idoli. A supportare l’ipotesi c’è il mistero delle sette pagode: il tempio sulla spiaggia sarebbe il solo sopravvissuto di un importante centro religioso sommerso dal mare. La violenta onda dello Tsunami nel 2004 rivelò, nascosi nella sabbia del mare, altri resti archeologici. Non ci sono tuttora prove dell’esistenza degli altri sei templi, ma i ritrovamenti confermano la presenza di un importante centro portuale. Forse la penitenza di Arjuna doveva accogliere e stupire i nuovi arrivati con il suo splendore. All’epoca vi era la passione per le ambiguità letterarie, opere che potevano essere lette come due diverse storie a seconda di come si dividevano le sillabe: a Mamallapuram esisterebbe una resa sculturea della moda. Ai commercianti e delegati stranieri poteva sfuggire una tale raffinatezza, ma non mancavano certo di notare l’esuberanza della composizione che sottolinea la prosperità portata dall’acqua. I re Pallava scelsero di essere rappresentati da due eroi, Arjuna e Bhagiratha, che con la propria ferrea determinazione cambiarono il corso degli eventi: sconfiggendo i nemici in guerra e donando prosperità al mondo con la discesa del Gange. Stessa forza di volontà che bruciava nell’animo dei Pallava, pronti a sfidare eserciti vicino e lontani, oceani in tempesta e la durissima roccia granitica, sicuri della finale vittoria che garantisce bellezza e benessere ai sudditi e ospiti del regno, ancora oggi.
Crediti
Sea Shore temple di Arian Zwegers
Elefante dei ratha di McKay Savage
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