A 12 chilometri da Puri c’è il villaggio di Raghurajpur, immerso nella campagna dell’Orissa. Che non sia un villaggio qualunque, ve lo segnala all’arrivo un cartello: Raghurajpur, Heritage Craft village. Qui abitano i chitrakara, i pittori dell’Orissa.
Ci sono tante piccole case decorate che si affacciano sull’unica strada. La tranquillità del luogo è immediatamente spezzata da insistenti inviti a visitare le case, che fungono anche da laboratorio e spazio espositivo per le famiglie del villaggio (attorno ci sono altri sei villaggi se avete voglia di passeggiare). Non visitarne nessuna sarebbe un errore. Io sono entrata in quella di Damodar Fatesingh
Una piccola stanza piena di quadri e decorazioni, due grosse valige contro la parete. Damodar ha aperto la più grande e si sono materializzati davanti ai miei occhi decine di dipinti in stile oriya, i pattachitra, mentre ascoltavo la storia dei suoi antenati, i segreti dei pattachitra e dell’arte di famiglia.
Patta significa stoffa e chitra disegno: la tela è preparata manualmente incollando due strati di stoffa, solitamente vecchie sari (l’abito tipico delle donne indiane), con una colla vegetale. Poi si copre con una pasta di polvere di pietra bianca (tipo gesso) e collante vegetale (ricavato dal tamarindo) e si lascia asciugare al sole. Con due diverse pietre si procede allo sgrossamento per ricavare una superficie uniforme e liscia. La preparazione della tela, fatta dalle donne di casa, da il nome allo stile.
La storia dei dipinti inizia con la costruzione del tempio di Jagannath di Puri, nel XII D.C. Uno dei tanti rituali di questo tempio prevede l’abluzione delle statue di legno dei tre dei principali durante la stagione calda, per rinfrescarli. A seguito del bagno gli dei si ammalano e passano quindici giorni in un una “clinica ayruvedica” (parola di Damodar) all’interno del tempio, lontani dallo sguardo dei devoti. Per non lasciare gli uomini privi del darshan (la visione) del divino, i chitrakara furono invitati a dipingere le divinità e così nacquero i pattachitra.
Divenne presto costume per ogni pellegrino comprare un patachitra da portarsi a casa come souvenir da venerare quotidianamente… gli artisti crebbero di numero, i temi delle tele inclusero episodi del Ramayana e della vita di Krishna.
Parallelamente i chitrakara per sopravvivere hanno continuato a fare anche altro, come i bellissimi tala pattachitra, ovvero i disegni su foglie di palma –che Damodar ha estratto dalla seconda valigia formando una montagna sul pavimento- o i muri delle case durante occasioni speciali o la seta.
I tola patachitra sembrano gli antichi manoscritti, ma non ci sono parole. Gli artisti e la maggior parte della popolazione un tempo era analfabeta e i disegni avevano anche scopo educativo, oltre che decorativo. Le foglie sono fatte seccare, preparate per resistere al passaggio del tempo e legate una sotto l’altra fino ad ottenere la lunghezza desiderata. L’artista incide il disegno usando uno stilo di metallo (vedi video), quindi passa sulla superficie della stoffa imbevuta di khol (o Kajal), la crema che le donne usano per truccare gli occhi e sciacqua con acqua: il nero in superficie scompare ed emerge il disegno, ovvero la linea nera all’interno dell’incisione.
Ancora oggi l’arte è tramandata da maestro, spesso il padre, a discepolo e non esistono scuole formali. La tradizione ha smesso di servire i pellegrini che preferiscono comprare le più economiche stampe ed è diventata più secolare per venire in contro ai gusti degli acquirenti, tra cui molti stranieri. Il rito dei pattachitra continua immutato da secoli nel tempio, mentre nel villaggio di Raghurajupur gli artisti vi aspettano in piccole e bellissime casette dipinte.
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