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Feste

Frecce nella carne, dio nel cuore: il kavadi

Il kavadi, il rituale tamil in cui frecce perforano il corpo, raccontato da un giovane devoto e dalla sua famiglia. Un tentativo di comprensione oltre i preconcetti culturali.

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Arun ha 18 anni, abita nella verdeggiante periferia di Trivandrum, studia ingegneria, ama indossare jeans e magliette, ascoltare musica e vedere film. Come molti suoi coetanei è religioso, è hindu con una devozione particolare per il dio Murugan, primogenito di Shiva, il dio preferito dall’intera famiglia.
In onore di Murugan, conosciuto anche come Subramanya, tra gennaio e febbraio si celebra la festa di Thaipuya (Thaipusam in Tamil Nadu, regione di origine). Tutta la famiglia festeggia l’occasione. Arun ha una speciale relazione con il dio Murugan e sono ormai anni che partecipa attivamente alla processione del kavadi, durante la quale si danza forsennatamente portando offerte al dio lungo un percorso di 4-5 chilometri. Esistono molte forme di doni: delicate brocche di latte, archi di legno appoggiati sulle spalle, su cui si impiantano alti pinnacoli fioriti che ricordano i tetti dei templi o vel, frecce metalliche che perforano da parte a parte le guance e la lingua. Si crede che maggiore sia il dolore e la difficoltà della prova, maggiore sia la possibilità di arrivare a dio. Arun pratica il vel kavadi e lo fa con totale fede e chiari intenti.

“Dopo il matrimonio i figli non arrivavano” racconta Kumar, il padre “abbiamo pregato Murugan e offerto vel kavadi e Arun è nato”. Forse per questo al ragazzo sembra una scelta naturale il kavadi. “Il primo è stato quando era piccino” mi dice la mamma piena di orgoglio mostrandomi un ingiallito album di foto. Ho quasi paura a guardare, ma la foto ritrae Arun bambino senza frecce, con della polvere bianca sulla fronte, il vibhuti, che si crede aiuti a raffreddare mente e corpo. Il vel kavadi è arrivato solo qualche anno dopo e non ci sono le foto. Ci sono invece quelle del papà infilzato con una freccia di almeno un metro di lunghezza, forse proprio quella che ha fatto nascere Arun.

Mi accorgo di fare fatica a non giudicare, a tenere a bada il pensiero logico e razionale, coltivato dalla società intorno a me fin dalla nascita. Il loro insistere sui dettagli cruenti non è di molto aiuto. Devo tornare con il pensiero al giorno in cui ho assistito a un vel kavadi, con tanto di camminate sui carboni ardenti davanti al tempio. La partecipazione serena e spirituale della gente attorno a me, bambini compresi, l’energia vibrante che emanava dai “flagellanti” mi avevano incuriosita e spinta a incontrare Arun.
Perché un ragazzo giovane e istruito si perfora? Come supera la paura del dolore fisico e cosa prova? “Ogni volta l’ho fatto per ottenere un favore e per ringraziare di quello concessomi l’anno precedente” spiega Arun senza alcuna esitazione. “Inoltre” sostiene “non si prova dolore, solo un bruciore nei giorni successivi. Non si sanguina nemmeno e in molti casi la ferita si rimargina senza lasciare traccia”. Alla domanda "cosa si prova ?" ha un attimo d’incertezza, poi risponde che non lo sa, non ricorda nulla di cosa succede dal momento che viene inserita la freccia fino a quando il vel viene deposto davanti all’idolo di Murugan. Però è soddisfatto quanto tutto finisce, tanto da voler continuare ancora e passare la tradizione ai figli.

Nel kavadi i devoti cadono in una sorta di trance, in uno stato di alterazione di coscienza. Gli sguardi assenti che ho incrociato la sera del Thaipuya confermano questa ipotesi. Malignamente avevo pensato all’effetto di qualche sostanza inebriante, ma era un’ipotesi del tutto fuori posto. Per arrivare a portare il kavadi bisogna essere puri: seguire una rigida dieta vegetariana per un certo periodo (che varia a seconda dei templi da una settimana a 42 giorni), astenersi da intercorsi sessuali, dormire per terra, non bere alcolici, non consumare droghe e non fumare, il tutto per tenere sotto controllo la mente. L’obiettivo dell’intero processo è avvicinarsi a dio, partecipare dell’energia divina. C’è mortificazione della carne, ma non senso di espiazione del peccato, concetto che non appartiene alla filosofia hindu: si vuole vivere un’intensa esperienza estatica, capace di trascendere i limiti del mondo fisico.

“Sei giorni prima della festa ci trasferiamo nel tempio, dove un maestro spirituale, lo stesso che ci mette i vel, segue la nostra preparazione e conduce i riti necessari. Il giorno della festa, dopo l’abluzione sacra e altre cerimonie, alcuni di noi sentono la chiamata di Murugan e vanno dal guru che li perfora. Se non hai la visione, forse perché hai paura, il maestro sa quando sei pronto. Se continui a non sentirtela, ad avere dubbi, il maestro non ti chiama, ma non mi è mai successo di vedere qualcuno andarsene”.
Il festival si celebra in tutti i templi dove Murugan è venerato, non solo in India. Chiunque può prendere parte al rito, indipendentemente dalla religione, ceto sociale, nazionalità e genere, purché la motivazione sia forte. Il rito è stato anche notato da rappresentanti della body art, che considerano il proprio corpo e le sue manipolazioni una forma di arte totale. Queste interpretazioni del kavadi stravolgono l’idea di base del rito: l’offerta a dio. Tuttavia hanno in comune la convinzione che attraverso stati alternati di percezione corporea sia possibile esperire qualcosa di fuori dal comune vivere quotidiano.
Esperienza possibile solo per i più intrepidi, protetti dal guerriero dio Murugan, che dopo una gestazione turbolenta, a soli 6 giorni di vita sconfisse – proprio con una freccia- il tremendo e indefesso demone Taraka.

 

Crediti immagini:

Benedizione divina e Sul cammino verso dio di HooLengSiong

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